giovedì 3 marzo 2011

Da Canne a Zama

In uscita un nuovo libro di Leo Pollini "Da Canne a Zama, storia di una vittoria" per le edizioni EffeDiEffe.


Perché un libro, oggi, su un periodo della storia di Roma? In un contesto socio-culturale che opera alacremente per cancellare le nostre radici, la nostra memoria, è paradigmatico ristudiare continuamente Roma, per capire

- come mai potesse dominare il suo vastissimo impero con così pochi soldati (quelli che gli americani hanno in Iraq);
- per capire cosa funzionò nell’impero, e come mai smise di funzionare;
- per capire le lotte del potere romano, che tanto possono illuminare le lotte del potere d’oggi;
- per capire come mai, nella decadenza, Roma seppe condurre la gestazione di un’altra civiltà, diversa ma a lei collegata come figlia.
Insomma, tale studio è funzionale alle nostre urgenze vitali, non mitologia.

La mia recente rilettura di una vecchia biografìa del leggendario Annibale (J. P. Baker, Annibale, Edizioni Dall’Oglio, 1956) suggerisce un singolare parallelo con il tempo presente. Caos da fine di un’epoca, caduta di muri e di ideologie, tecnica ed economia disumane sono realtà con cui misurarsi all’inizio di un nuovo millennio. La comune matrice di queste ultime, discesa dal calo di tensione spirituale, risiede in gran parte nell’oblio della politica.
Intendiamoci: morta questa non scompaiono i suoi rappresentanti, ma a qualificarli rimane solo la forma. La sostanza, ormai, è banale ratifica di decisioni maturate altrove, nei circoli finanziari, apolidi per loro natura.
Oggi la politica è schiava dell’economia, con tutto ciò che consegue in termini di freno alla civilizzazione, squilibri demografici, disordine morale e materiale. Questo segna il successo di una visione della vita e del mondo che nei secoli è stata mitigata, quasi trattenuta dall’arte di governo. Ogni grande impero, dal romano al britannico, dall’austro-ungarico al moderno – piaccia o no – americano, ha avuto origine da una sola presunzione: incarnare il migliore sistema politico-istituzionale esistente. L’economia sinora ha viaggiato al pari di tale concezione, mai al di sopra. Ma nella storia, il rischio di un capovolgimento si è già manifestato in tempi remoti.
Dietro i futili pretesti che le scatenarono, le guerre puniche furono il primo autentico scontro tra due civiltà fondate su queste differenti filosofie.

Da una parte Cartagine, florida ed emancipata colonia fenicia, retta da un’oligarchia mercantile tetragona al più piccolo mutamento sociale, dall’altra l’astro nascente di Roma, forte di leggi e di istituzioni uniche al mondo. Cartagine, il dominio dei mercati (la città fenicia aveva conquistato il monopolio commerciale del mondo mediterraneo) Roma, la grandezza della polis.

Fu anche la sfida tra due caratteri: il fenicio, impenetrabile, calcolatore, duttile e superstizioso contro il romano: severo, inclusivo, legalitario e pratico. Due tipi umani che, con le dovute varianti ed eccezioni, hanno distinto da sempre l’uomo d’affari dall’uomo di Stato.
L’ordine cartaginese, anche se più antico del romano, non fu autentico. La sua cellula sociale, rigida ed esclusiva, non potè essere un modello esportabile. Dalla stessa natura elitaria del governo punico discendeva poi l’idea che le colonie fossero luoghi di sfruttamento e di dipendenza commerciale. La relativa facilità nella formazione di nuovi insediamenti e la propria ricchezza, portarono Cartagine ad estraniarsi dalla guerra. Per il fenicio non era un dovere comunitario, ma una necessità che egli affidava di buon grado ad eserciti mercenari.
E’ facile sin d’ora osservare le analogie con i nostri tempi. Nei progetti dell’impero-mercato mondiale che va delineandosi, il tessuto sociale deve essere quanto mai sfibrato, destrutturato, prono ai gusti e alle false necessità instillate dalle eminenze grigie economiche e monetarie. I conflitti, lo si vede già, sono ridotti a sanguinosi rigurgiti locali, blanditi con diplomazia e dispiegamenti di quelle moderne truppe mercenarie che sono i contingenti ONU. Nel mercato globale non esiste amor di patria, perché questa è il mondo. Ai popoli è lasciato solo un ménage spinto ai limiti della sopravvivenza. L’intelligenza speculativa è bandita in nome di una cultura specialistica, ipersettoriale, aderente ai consumi. La spiritualità è degradata ad ottusa superstizione, becero supermarket dell’anima. Questa visione, oggi in itinere avanzato, è quanto Cartagine avrebbe prospettato al mondo – ovviamente in forma arcaica – una volta sconfitta Roma. Il loro lungo confronto quasi assunse contorni metafisici.
Annibale vi emerge in una fase delicata, quando fortuna ed abilità si sono equamente divise tra i contendenti. Egli non rompe – come si è tentati pensare – la mentalità propria della sua gente, ma la sublima. Nato in Spagna, versato nella guerra – caso raro per la sua stirpe che, come detto, s’interessava più che altro di traffici – acuto, carismatico, imprevedibile, Annibale è naturaliter un dittatore; come Alessandro e Napoleone è da collocare tra i più originali e brillanti grandi condottieri. Annibale fu dunque uno degli uomini più importanti tra quelli che dettero origine ad un governo personale, in opposizione al potere di un’Assemblea o di un Senato. Le sue doti di condottiero dì uomini sono passate alla storia. L’influenza che egli esercitò sulle generazioni posteriori può essere paragonata a quella di Alessandro, da cui pur si differenzia.
Le idee trasmesse da Annibale sono idee di metodologia e di azione individuali. Egli ha insegnato al mondo le modalità di agire per guidare grandi masse di uomini, per nulla limitate dalle contingenze di tempo o di luogo, ma universali ed eterne quanto l’uomo stesso; ciò grazie ad una personalità versata ad agire sulle speranze, i timori, le virtù, le debolezze e i difetti degli uomini. Se volessimo risalire alla sorgente dei concetti moderni sul comando, potremmo dimostrare che i più corretti e i più creativi provengono tuttora da lui. Cartagine non lo amava, ma su di lui, sulla sua potenza quasi interamente fondata sull’influenza personale che egli riusciva ad esercitare su altri uomini, riponeva le speranze di vittoria. Condotto ai nostri giorni, somiglia – per spregiudicatezza, rapidità e vastità d’azione, ascendente sui fedelissimi, indifferenza all’autorità - ad un Soros, il finanziere di punta del liberismo anarcoide.
Conosciamo l’esito del formidabile urto tra le due antiche potenze. Da una parte, come detto, un potere derivante appunto dal genio personale di un condottiero, che esercita il suo carisma di autorità assoluta, non dipendente, se non in minima parte, da qualche forma costruita dì governo e dall’altra una forza derivante da una stretta associazione di uomini riuniti in una società dalla forte ossatura politica. Meno note sono le cause del successo finale di Roma, che il nuovo libro edito da EFFEDIEFFE analizza.
Sarebbe riduttivo credere, come ancora pensano tanti storici vittime dell’oscurantismo marxista e di quello – speculare – liberale, che la sola economia sia generatrice di guerre. Sì tratta di un pensiero tipico di queste ideologie, ove anche l’ordine giuridico e civile è monetizzabile.
Roma vinse, invece, in ragione del suo sistema istituzionale: lungi dall’affidarsi al talento contingente di un solo uomo e a smisurate ricchezze, potè contrapporre a Cartagine il potere di Assemblea e Senato e la dedizione dei suoi cittadini-legionari.
A Roma vigeva un ordine atto ad espandersi, a civilizzare popoli diversi e a renderli partecipi di obiettivi comuni, superiori alla mera egemonia mercantile. Per questo, quando fu sentenziato che Cartagine era stata distrutta non tirarono un sospiro di sollievo solo gli abitanti dì una (ancora per poco) modesta città sul Tevere.

Maurizio Blondet
tratto da www.effedieffe.com

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