E' ormai giunto alle battute finali il Jommelli-Cimarosa Festival, l'evento organizzato dal Comune di Aversa per commemorare il trecentesimo anniversario dalla nascita di Niccolò Jommelli, uno dei due grandi musicisti settecenteschi nati nella cittadina normanna. Dopo una lunga carrellata di concerti, convegni ed omaggi musicali, la manifestazione toccherà il suo culmine venerdì 19 dicembre con la rappresentazione de "Il trionfo di Clelia", opera seria in tre atti musicata da Jommelli su libretto di Pietro Metastasio, che verrà nuovamente rappresentata per la prima volta dopo duecentoquarant'anni presso il Teatro Cimarosa a cura dell'associazione Malibran, con inizio alle ore 20.00. Sabato 20 dicembre invece, alle 20.30, presso la chiesa dell'Annunziata, sarà presentato il volume "Jommelli, il musicista galantuomo" prima biografia organica del compositore aversano, realizzata dal giornalista Nicola De Chiara .
giovedì 18 dicembre 2014
lunedì 17 novembre 2014
Giuseppe Mazzini patriota e pensatore politico
Il 22 giugno (o, come dicono alcuni testi, il 22 maggio) del 1805 nacque a Genova Giuseppe Mazzini, l’apostolo dell’unità d’Italia. E’ difficile credere che esista oggi in Italia una persona che non conosca almeno di nome il grande Genovese. Molti ricordano: che fu l’organizzatore della Giovine Italia e della Giovine Europa; che sacrificò l’intera sua vita per l’ideale di una “Italia una, libera, indipendente e repubblicana”; che, direttamente o indirettamente, suscitò i cosiddetti “moti mazziniani”, e così via dicendo.
Pochi, però, sono in condizione di ripetere anche i motivi ideali della sua azione, la “filosofia” che fu dietro di essa. Richiamiamo, allora, alla memoria tali motivi, almeno nelle loro linee essenziali. Sicuramente fu un romantico fin nel profondo dell’anima. Infatti riteneva che la vita di ogni uomo è degna di essere vissuta soltanto se è spesa per concorrere a realizzare grandi ideali, come, ad esempio, quello dall’unità repubblicana del nostro Paese o dell’unione europea; inoltre, per questo ideale, nonostante potesse condurre una vita agiata e non priva di onori grazie alle grandi qualità di giornalista e di scrittore che indubbiamente aveva e la laurea in legge conseguita nel 1827, scelse prima la via della cospirazione all’interno della Carboneria e, poi, divenuto critico nei confronti di questa, promosse iniziative varie a causa delle quali, senza esitazioni, si espose a processi, detenzione, condanne a morte, persecuzioni, esilio, miseria, che lo accompagnarono per più di quarant’anni della sua esistenza. Il motivo di ciò era la sua convinzione che la vita è una missione e che la sua legge suprema è il dovere. Questa idea assimilò fin da piccolo ascoltando il padre Giacomo, medico e professore universitario, ex giacobino, e la madre Maria Drago, persona di alta sensibilità morale e religiosa, tendente verso il giansenismo. Per lui l’agire di ogni uomo è inserito nel vasto disegno del progresso del genere umano, voluto da Dio per il bene delle nazioni e dell’umanità intera. Mazzini nominava spesso Dio, ma non lo concepiva nella forma della trascendenza cristiana, bensì come volontà morale, che disciplina le azioni degli uomini dall’interno delle loro coscienze e che spinge i popoli verso la luce del progresso, in altre parole come spirito presente nella storia ed identificantesi con l’umanità stessa. Nel capitolo II di quel testo che è stato definito “la summa dei suoi pensieri”, cioè Dei doveri dell’uomo (cfr. in Scritti politici di G. Mazzini, a cura di Grandi e di Comba, UTET, Torino 1987), ad esempio, scrisse: “Dio, creando la vita, ha donato ad essa come legge un perfezionamento indefinito, una capacità di salire per una serie indeterminata di gradi verso l’ideale supremo.”; “Dio vive nella nostra coscienza, nella coscienza dell’umanità, nell’universo che ci circonda. … … … L’universo lo manifesta coll’ordine, coll’armonia, coll’intelligenza dei suoi moti e delle sue leggi.”.
Certamente questo senso del divino nel mondo in Mazzini era frutto di un’intuizione non di una dottrina, nasceva da una sua disposizione spirituale e non da una teoria vera e propria. Per questo motivo nello stesso testo egli affermò anche: “Dio esiste. Io non debbo né voglio provarvelo: tentarlo mi sembrerebbe bestemmia, come negarlo è follia. … …Dio esiste” e “l’Umanità è il suo profeta.” (Ivi). Sospinti, quindi, da questa legge divina i popoli debbono compiere ogni sforzo per adempiere alla loro missione di emanciparsi dalla dipendenza straniera, costituirsi in unità e migliorare le proprie condizioni politiche e sociali per il bene proprio e per favorire la concordia universale: Dio vuole questo e perciò parla al popolo e lo guida nello sforzo del proprio riscatto. “Dio e popolo” sono, quindi, i due poli dell’asse su cui si muove la storia d’Italia o, in ogni nazione, la storia di quella nazione. Secondo lui quest’ultima, poi, è un organismo vivente che trascende i singoli individui ed opera in armonia con le altre nazioni, è “l’ universalità de’ cittadini parlanti la stessa favella, associati, con eguaglianza di diritti civili e politici, all’intento comune di sviluppare e perfezionare progressivamente le forze sociali e l’attività di quelle forze. … … (essa) è sola sovrana.” (da: I collaboratori della “Giovine Italia” ai loro concittadini, in Scritti politici, op. cit., p.316). Per questa visione della vita: fu contrario al sensismo illuministico e alla “teorica dei diritti” che si appoggiava su di essa; esaltò l’idea che per sostenere il benessere di tutti gli individui e i popoli, più che i diritti dovessero essere esaltati i doveri degli uomini; sostenne che l’esaltazione dei doveri dovesse prendere le mosse proprio da una concezione religiosa della vita, in modo che tutti i valori veri dell’esistenza trovassero unificazione in Dio. Per questo motivo negli stessi Doveri, rivolgendosi agli operai a cui dedicò l’opera nel 1860, affermò: “L’origine dei vostri doveri sta in Dio. La definizione dei vostri doveri sta nella sua legge. La scoperta progressiva, e l’applicazione della sua legge appartengono all’Umanità.”. Il rapporto tra Dio e l’umanità, inoltre, secondo il patriota genovese, assume forme concrete nella nazione e nel suo genio. In modo particolare, per l’Italia tale rapporto si realizza in una terza missione di Roma: “Albeggia oggi per la nostra Italia una terza missione: di tanto più vasta quanto più grande e potente dei Cesari e dei Papi sarà il POPOLO ITALIANO, la patria una e libera che voi dovete fondare. Il presentimento di questa missione agita l’Europa e tiene incatenati all’Italia l’occhio e il pensiero delle nazioni.” (Dei doveri ecc., cit., cap. V).
La missione assegnata all’Italia, dunque – secondo il Mazzini- non era quella di una potenza politico-militare, ma un impegno di solidarietà e di libertà e per questo motivo egli affermava spesso che amava la propria patria in quanto amava tutte le patrie e fondò nel 1834 la “Giovine Europa”, nonostante che nel 1831 aveva fondato la “Giovine Italia”. Per attuare questo sogno italiano di unità e di prestigio non bastavano la propaganda e l’affiliazione promossa dalla Giovine Italia. Esse potevano essere sufficienti per riscuotere il consenso di quegli spiriti nobili già pronti per la loro “missione”, ma non per svegliare la totalità degli italiani. Era perciò necessario scuotere le coscienze anche attraverso l’azione educativa e rivoluzionaria. Ciò spiega il secondo famoso motto mazziniano “Pensiero ed azione”. Egli pensava che soltanto la coscienza emancipa i popoli e la moralità chiarifica la missione della vita, dà slancio all’ideale, fa crescere la forza del dovere e del sacrifico per l’azione, consentendo la formazione di uomini disposti anche all’estremo sacrificio della vita per l’emancipazione di se stessi, per la libertà della patria e per il progresso dei popoli. Nell’impegno politico entrava così come forza determinante anche il tema dell’educazione. Questa secondo lui doveva essere intesa come “e–ducere”, “cavar fuori” quanto è nell’animo, far germogliare nelle coscienze il senso della propria missione civile e politica. E per realizzare ciò erano indispensabili la propaganda nazionale, l’attività pedagogica di elevazione morale e religiosa, e l’azione esemplare di giovani patrioti che insorgono contro i despoti e, se necessario, muoiono per il loro nobile scopo. Per questo motivo, a quanti gli rimproveravano di mandare allo sbaraglio i suoi seguaci, rispondeva che il martirio, se avviene per nobili ideali, non è sterile e che si deve insorgere per poter educare e si deve educare per potere insorgere. L’educazione non fu oggetto di studio specifico ed approfondito da parte dell’Apostolo genovese, che, comunque per sette anni, a partire dal 1841, a Londra, organizzò e condusse una scuola elementare popolare e gratuita per i piccoli “suonatori d’organino” di origine italiana, presenti in quella città. Secondo lui l’attività educativa deve essere innanzitutto di tipo morale. Rivolgendosi ai genitori dei suoi alunni, infatti, scrisse al riguardo: “La distinzione fra gli uomini i quali vi offrono più o meno istruzione e quei che vi predicano educazione è più grave che non pensate. … … l’educazione è la manifestazione del programma sociale … … insegna quale sia il Bene sociale … … senza di essa, l’istruzione sarebbe come una leva mancante d’un appoggio”. Includeva, poi, in questo insegnamento “… un corso di nazionalità comprendente un quadro sommario dei progressi dell’Umanità, la Storia Patria e l’esposizione popolare dei principi che reggono la legislazione del paese” oltre che l’apprendimento dei principi dell’eguaglianza e dell’amore, perché senza questo apprendimento i giovani non “possono, cresciuti a gioventù, affratellarsi in concordia di opere e rappresentare in sé l’unità del paese”. (Dei doveri ecc., cap. X.). Accanto a questa educazione morale, poi poneva l’istruzione che “somministra i mezzi per praticare ciò che l’educazione insegna”. Rientravano nei compiti dell’istruzione quelli di far apprendere a leggere, a scrivere, l’aritmetica, “un po’ di geografia, disegno elementare”. La domenica venivano trattate la storia patria, le vite dei grandi, le nozioni più importanti di fisica e altri argomenti che via via venivano considerati “giovevoli a secondare e innalzare quelle rozze menti, intorpidite dalla miseria e dalla abbietta soggezione ad altri uomini” (Ivi).
Momenti del suo impegno civile e politico furono dedicati anche alle questioni sociali. Il suo messaggio su questo terreno fu rivolto a tutta la nazione, che intese romanticamente come un corpo unitario, privo di divisioni sociali, salvo quella relativa alla distinzione fra la “classe più numerosa e più povera” e le “minoranze privilegiate”. Riparato a Londra a partire dal 1837, lì poté esaminare direttamente i problemi del proletariato industriale e fondò una Unione degli operai italiani, che fu il primo esempio di organizzazione operaia nel nostro Paese. Così alla precedente opposizione tra ricchi e poveri sostituì quella più attuale tra proprietari e proletari e impegnò le sue energie per una società non lacerata dai conflitti di classe, in cui capitale e lavoro fossero nelle stesse mani. Per questo motivo criticò fermamente la dottrina marxista e abbozzò il progetto di una soluzione cooperativistica all’organizzazione del lavoro.
Prof. Antonio Serpico - tratto da L'ECO DI AVERSA
domenica 28 settembre 2014
Un caso di giustizia
La condanna di Luigi De Magistris, ex magistrato d’assalto e
sindaco “Masaniello” di Napoli, ha scatenato i fedeli osservanti della religione carceraria a difesa del profeta
condannato dai suoi stessi sacerdoti. La sentenza, e fino all’altro ieri le “sentenze
della magistratura” avevano un’aura sacrale, è improvvisamente divenuta frutto
di un complotto, di giudici collusi, che secondo Giggino sparame ‘mpietto
dovrebbero “vergognarsi e dimettersi”, con i poteri che vorrebbero far fuori un
“sindaco scomodo”.
Ora non si spiega per quale motivo quando
questi argomenti sono usati da un Berlusconi, un Formigoni o un Cosentino
qualunque sarebbero atteggiamenti eversivi mentre se usati dall’ex magistrato
De Magistris siano legittime espressioni
di amarezza di un innocente onesto. Dal punto di vista processuale della
famigerata Why Not resta ben poco, qualche pesce piccolo condannato mentre la
stragrande maggioranza degli imputati risultano assolti o archiviati, gli stessi
Prodi e Mastella sono stati prosciolti in corso d’istruttoria e proprio le
modalità di acquisizione delle intercettazioni sugli allora premier e ministro
della giustizia hanno portato Giggino l’arancione alla condanna. Col suo consulente
Gioacchino Genchi, questurino informatico già santificato da Marco Travaglio, De
Magistris ha acquisito in modo illegittimo i tabulati telefonici del presidente
di alcuni parlamentari senza chiedere la
obbligatoria autorizzazione alla camera alla quale appartenevano, per questo
sono stati entrambi condannati a 15 mesi di reclusione. Se le “sentenze si
rispettano” allora devono rispettarsi sempre e dunque anche il buon Giggino
deve rassegnarsi al fatto d’essere stato condannato , sia pur in primo grado, e
di dover sottostare alla sospensione prevista dalla legge Severino come già capitato ad altri sindaci. L’uso
della legalità a giorni alterni è ipocrita, specie da parte di certi
professionisti del giustizialismo da bar e dell’anti-mafia-anti-camorra-legalità
a tanto al metro. Il reato che De Magistris avrebbe commesso secondo i giudici
è peraltro gravissimo, perché come cittadino mi sento molto più minacciato da un magistrato
che impunemente possa entrare nelle vite private calpestando ogni garanzia e abusando
del proprio ruolo piuttosto che da un imprenditore che sottrae miliardi al
fisco, perché valuto la libertà ben più importante di qualunque tassa. Il sindaco
di Napoli, che ha costruito tutte le sue fortune politiche sull’ondata
giustizialista, è rimasto travolto da un sistema perverso e schizofrenico qual
è la macchina della giustizia italiana, una macchina a cui egli stesso ha dato
una forte accelerazione e che ora non può disconoscere senza mettere in crisi
la sua stessa identità mediatico-politica. E questo è poi un grande punto
troppo spesso ignorato del personaggio, il suo essere politicamente nullo, il
suo non rappresentare null’altro che sé stesso, la propria boria, la propria
voglia di rivalsa e di affermazione personale, per questo la condanna, al di là
di tutto, rischia di distruggere l’identità politica di un individuo privo di
substrato ideologico, privo di reali capacità di gestione, come hanno
dimostrato questi anni da sindaco, privo di un reale programma che non sia l’autopromozione
di sé stesso. Dalle parti di Napoli c’è un termine, poco traducibile in
italiano, che descrive alla perfezione il sempre accigliato primo cittadino partenopeo: è nu chiachiello!
Però a De Magistris
va riconosciuto, anche se lui non riserverebbe mai lo stesso trattamento ai
suoi avversari, il merito di voler resistere, perché deve essere chiaro sempre
che le cariche elettive sono affidate e revocate dalla volontà popolare e non
possono essere soggette alla tutela giudiziaria.
mercoledì 30 luglio 2014
Pace e libertà per Gaza
Vicini alla sofferenza del popolo palestinese che a Gaza è vittima di un brutale e indiscriminato attacco israeliano.
mercoledì 23 aprile 2014
Si inaugura il Museo Militare
Nella mattinata di sabato 26 aprile il Civico Museo di Storia Militare di Aversa sarà inaugurato ufficialmente dal sindaco della città normanna Giuseppe Sagliocco e dal presidente dell'Associazione Gioventù Aversana Salvatore de Chiara. Dopo un lungo periodo di chiusura necessario ad effettuare urgenti lavori di manutenzione il museo riaprirà nuovamente i battenti mostrando le proprie collezioni riorganizzate ed arricchite. Ospitato nei locali del centro "Caianiello", presso l'ex macello comunale, il museo nasce dalla collaborazione tra l'associazione Gioventu' Aversana ed il Comune di Aversa per recuperare e valorizzare il patrimonio documentale e di cimeli storici custodito dalle associazioni d'arma della città. In particolare il museo raccoglie al momento reperti provenienti in gran parte dalla raccolta della ass. Naz del Fante e da alcuni collezionisti privati, offrendo un panorama sulla "storia con le stellette" che va dal periodo risorgimentale fino alla fine del '900. Si tratta di un importante presidio di storia per la città di Aversa, inpegnato a riscoprire e far conoscere uno degli aspetti meno conosciuti della nostra comunità locale.
mercoledì 12 marzo 2014
La vera storia del brigante Curcio
Secondo ricorrenti didascalie di questa foto, ripresa in diversi testi, il personaggio morto o moribondo ritratto nel mezzo sarebbe il brigante Curcio, personaggio che, secondo certe interpretazioni “alternative” degli eventi verificatisi nelle province del sud Italia nel periodo risorgimentale, sarebbe stato nativo di Aversa e si sarebbe opposto in armi alle truppe italiane finendo poi fucilato ed esposto come monito nel 1870. Sulle ali di un male interpretato sentimento di orgoglio meridionalista si sono moltiplicate, negli ultimi anni, le ricostruzioni tendenti distruggere la consolidata storiografia risorgimentale e così, nell’ottica di chi vede garibaldini e piemontesi come una banda di predoni calati a rapinare il ricco meridione, quelli che all’epoca furono chiamati briganti, e che in massima parte furono effettivamente criminali comuni, divengono puntualmente eroici difensori del popolo. Anche ad Aversa ci si è affrettati a scegliersi il proprio “paladino brigantesco” rivendicando l’aversanità di tale Antonio Curcio ed attribuendogli mirabolanti imprese ed fine una gloriosa sulla quale è però il caso di fare piena luce.
In realtà si è trattato di un equivoco generato dalla confusione di nomi e date in cui sono caduti diversi autori, ma è stato sufficiente un controllo presso l’archivio storico fotografico Alinari ed una più attenta lettura delle fonti d’epoca per chiarire l’identità e la provenienza del famigerato brigante. Antonio Giuseppe Jovine, detto “Curcio”, nacque in un luogo imprecisato nelle campagne tra l’acerrano e il nolano in una famiglia di contadini. Intorno al 1860 dopo alcuni furtarelli di ortaggi e frutta in diverse masserie di Acerra si diede alla macchia facendosi arruolare nella banda dei fratelli La Gala, responsabile di rapimenti e rapine tra Nola e le montagne attorno a Cervinara dove i banditi avevano il loro principale rifugio. Dopo un fallito tentativo di alleanza con il più noto e potente capobrigante del meridione, Carmine Crocco, la banda La Gala tenterà di imitarne la tattiche dando l’assalto ad interi municipi e sfidando in campo aperto le truppe governative dalle quali fu ripetutamente battuta finendo per frazionarsi in formazioni più piccole all’inizio del 1862. Fu in questo periodo che Curcio emerse come capo autonomo radunando un piccolo numero di briganti delle bande maggiori e continuando la pratica delle estorsioni, dei furti e dei rapimenti a scopo di riscatto nei dintorni di Acerra, riuscì a sfuggire più volte alla cattura grazie ad una rete di protettori ed informatori, anche all’interno delle forze di polizia, che egli stipendiava regolarmente. Furono propri due suoi ex fiancheggiatori militi della Guardia Nazionale, i fratelli Mugnolo di Acerra, che lo tradirono temendo che l’arresto di un loro parente potesse svelare la loro complicità con i briganti e sperando di incassare la taglia che pendeva su Curcio, il 2 novembre 1864 organizzarono dunque una trappola presso il suo rifugio abituale e lo pugnalarono ripetutamente, quindi, credutolo morto, ne uccisero la compagna Angela Zimaldone e corsero a denunciare l’accaduto per intascare la ricompensa.
Curcio, benché gravemente ferito, sopravvisse il tempo sufficiente per essere arrestato e fotografato vivo da un reparto di bersaglieri e guardie nazionali al comando del Maggiore Annibale Manlio al quale confessa i nomi dei propri complici divenuti suoi assassini che verranno condannati ai lavori forzati nel 1865. Il brigante morirà per le ferite dopo tre giorni di agonia il 5 novembre 1864. Questa è stata la storia di un criminale comune che nulla ebbe di eroico e che, malgrado certe superficiali attribuzioni, nulla ebbe a che vedere con Aversa.
Salvatore de Chiara
bibliografia
- Pasquale Cicchella, Il brigantaggio post-unitario nella campagna acerrana, Artéria Edizioni, 2006
- Giuseppe Viola, I ricordi miei, Acerra 1906
- A.S.C., Fondo processi politici, Tribunale S. Maria Capua Vetere
lunedì 3 marzo 2014
Gioventù Aversana è una soltanto
A seguito di diverse segnalazioni e richieste di chiarimenti giunteci ci preme precisare che il gruppo "Giovani Aversani", recentemente apparso su alcuni social media, non è in alcun modo collegato all'ODV Associazione GIOVENTU' AVERSANA e non ha alcun legame con essa. Si rammenta inoltre che l'appellativo "giovani aversani" è correntemente usato dai soci dell'Associazione sin dalla sua fondazione. Per ogni sua iniziativa l'Associazione GIOVENTU' AVERSANA utilizza sempre e soltanto il proprio nome ed il proprio simbolo e non svolge alcuna attività in forma anonima, invitiamo tutti gli aversani a prestare attenzione ed a non cadere in errore.
sabato 8 febbraio 2014
10 febbraio: NON SCORDO!
In occasione del “Giorno del Ricordo” in memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo degli istriano-fiumano-dalmati, il Comitato 10 Febbraio – Aversa, rinnoverà la sua commemorazione del martirio delle genti giuliane con una fiaccolata che, muovendo dalla chiesa dell’Annunziata alle ore 18.30, percorrerà via Roma per giungere poi al Parco Pozzi, ove verrà deposto un omaggio floreale all’ingresso di quello che fu il campo profughi baraccato di Aversa che dalla fine della seconda guerra mondiale fino agli anni ’70 ospitò proprio gli esuli dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia. L’iniziativa, promossa in primis dall’associazione Gioventù Aversana, vuole farsi carico di perpetuare il dovere del ricordo di una delle pagine più tragiche e troppo a lungo nascoste della storia nazionale, nella quale Aversa ha avuto un importante ruolo di accoglienza.
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